Testo dell’intervento di Olindo Isernia in occasione
dell’incontro su Storia locale: recenti contributi
svoltosi il 30 novembre 2005 presso la Sala Conferenze
del Centro dei Servizi Sociali e culturali “Sant’Agostino”
largo S. Sebastiano - Caserta




In questo mio intervento, che riguarderà la produzione storiografica in Terra di Lavoro
nell’Ottocento e Novecento, proverò a soffermarmi, in rapida sintesi, su alcuni aspetti della
storia di questa nostra provincia, che, negli ultimi tempi, hanno ricevuto particolare
attenzione da parte degli studiosi di storia locale e che, di conseguenza, presentano un più
ricco e completo quadro di conoscenze. Il tutto nell’ambito di una generale crescita, a
partire all’incirca dagli ultimi tre decenni, della produzione storiografica riguardante la
provincia, sia sotto il profilo quantitativo che sotto il profilo qualitativo, per quel che
riguarda, in particolare, la scelta dei contenuti da trattare e le metodologie.
Un settore poco esplorato si poteva ritenere, in epoca ancora relativamente recente,
quello dell’industria meridionale, come stanno, con evidenza, a dimostrare i rari
riferimenti, limitati per lo più alle fabbriche di maggiori dimensioni, rinvenibili nei pochi
lavori d’assieme usciti in quel periodo, quali quelli del Petrocchi e di Domenico De Marco.
Anche in Terra di Lavoro esisteva nell’Ottocento un diffuso polo industriale tessile
(lanifici) e per la produzione della carta, localizzato nella Valle del Liri (Arpino, Isola
Liri, Sora); cotonifici sorgevano, inoltre, nel circondario di Piedimonte d’Alife e a San
Leucio aveva solide radici l’industria della seta.. Per merito dei lavori che su questa
realtà sono stati compiuti, più o meno a partire dagli anni ottanta del secolo scorso, da
Dewerpe, L. De Matteo, de Majo (lanifici), Griffo (cotonifici), Dell’Orefice (cartiere) per
il periodo dell’Ottocento preunitario e da Cimmino (lanifici e cotonifici) per il successivo
periodo (su San Leucio, che è ancora privo di uno studio diacronico, che abbracci tutte le
fasi della sua lunga attività, occorre rifarsi, invece, al più vecchio, ma fondamentale con
tributo di Giovanni Tescione e, per il Novecento, a quello, risalente a solo qualche anno fa,
del Pignataro) è possibile affermare che si dispone di esaurienti ricostruzioni sulle origini
di questo processo di industrializzazione o, secondo una definizione più appropriata, di
protoindustrializzazione per il suo carattere chiaramente funzionale ad una società
prevalentemente rurale ed arretrata; sulla politica, per lo più orientata in senso
protezionistico, condotta innanzi in questo settore dallo Stato; sull’organizzazione del
lavoro, che vigeva all’interno di questi opifici (ambiente di lavoro, impianti, forza motrice
utilizzata, caratteristiche della mano d’opera impiegata); sulle fasi di sviluppo e di
crescita, di arresto e di crisi, che ne caratterizzarono andamento e sviluppo, fino al
momento del crollo verticale, che coinvolse, all’indomani dell’unità della Nazione ed in
seguito all’introduzione anche nel Mezzogiorno di una linea di politica economica di
indirizzo liberista, il comparto più arretrato, quello dei lanifici. Sulle cause di questa
crisi, che si rivelò, per tanti aspetti, irreversibile, si diffonde il già citato Cimmino,
che concorda soltanto in parte con la tesi di quanti le attribuiscono all’abolizione delle
misure protezionistiche, che tenevano al riparo dalla concorrenza straniera i pannilani di
produzione locale, individuandone, in compenso, altre, quali l’arretratezza tecnologica degli
impianti, l’assenza di un’adeguata politica creditizia, la mancanza di idonee vie di
comunicazione, la mentalità non completamente orientata in senso imprenditoriale dei
proprietari delle fabbriche e, infine, le stesse scelte di lotta, condotte innanzi su basi
arretrate dalla locale classe lavoratrice.
Anche per l’agricoltura, malgrado non si disponga ancora di un adeguato numero di studi di
settore e vi siano diversi aspetti che vanno ancora indagati o meglio approfonditi, si può
ricostruire un essenziale quadro d’insieme di quella che, fino a non molto tempo fa, era
l’attività di gran lunga prevalente nell’intera provincia. Una provincia, quella di Terra di
Lavoro, che, dal punto di vista agricolo, per la sua diversificata conformazione morfologica,
presentava profonde differenziazioni da zona a zona per assetti colturali, regimi di
proprietà e grado di inserimento nei mercati nazionali e internazionali. Ne viene fuori un
quadro, che è, in definitiva, quello di un economia agricola con accentuate differenze al suo
interno e, perciò, caratterizzata da luci ed ombre, in cui si trovavano a coesistere aree a
coltura intensiva e aree a coltura estensiva, seminativo arborato e seminativo nudo,
cerealicoltura ricca e cerealicoltura povera, grande proprietà e grande affittanza lungo la
fascia costiera acquitrinosa e piccolissima, piccola e media proprietà nelle zone densamente
popolate e nelle zone interne. Così, se i circondari di Caserta e di Nola si segnalavano per
le alte rese, dovute, però, soprattutto alla straordinaria fertilità del suolo e non pure
all’utilizzo di più moderne tecniche di coltivazione; i circondari interni di Sora e di
Piedimonte d’Alife si caratterizzavano, invece, per un’agricoltura sostanzialmente povera, in
cui a prevalere era la cerealicoltura dalle basse rese. Nei momenti di crisi era soprattutto
in quest’ultima area, che si avvertivano più fortemente le conseguenze ed i contraccolpi
negativi. Allorché, per esempio, a partire dal 1879, cominciarono ad avvertirsi gli
inconvenienti di una profonda crisi agraria, che colpì in modo particolarmente violento
proprio la coltivazione dei cereali, a risentirne maggiormente furono le aree interne di
collina a cerealicoltura più povera, mentre nelle zone di pianura più fertile, a coltivazione
irrigua, si corse ai ripari, procedendo alla diminuzione delle superfici coltivate a grano ed
aumentando quelle da destinare alla coltura di prodotti pregiati, quali soprattutto la
canapa. Ad uscire, senza dubbio, meglio dalla crisi furono, pertanto, la grande proprietà e
la grande affittanza e così pure la piccola e media proprietà delle zone pianeggianti, in
particolar modo quelle comprese nella fascia tra Sparanise, Capua, Caserta, Maddaloni,
Acerra, Nola e l’Agro aversano. Non a caso, come è stato ampiamente documentato, fu dai
circondari si Sora e Piedimonte, cioè dalle aree poco fertili produttrici di cereali a bassa
resa, che ebbe inizio il flusso migratorio, che si sarebbe, comunque, esteso, a crisi agraria
ormai conclusa, pure agli altri circondari, anche a causa della forte attrazione esercitata,
in quel periodo, dai paesi transoceanici.
Parallelamente agli studi su industria e agricoltura, un particolare sviluppo hanno
ricevuto anche gli studi, che riguardano il movimento operaio e contadino e quello del
Partito socialista a partire dagli ultimi anni del secolo XIX. Fu proprio in questo periodo
che si andarono consapevolmente organizzando in provincia un gran numero di leghe contadine e
alcune Camere del Lavoro, che posero indirettamente fine agli antichi metodi delle Società
Operaie di Mutuo Soccorso, le quali non si erano mai occupate di scioperi e di lotte per
ottenere aumenti salariali, ma in ossequio all’indirizzo paternalistico borghese, che era ben
presente anche nelle Società dirette da democratici e radicali, si limitarono a provvedere
alle questioni di assistenza, di assicurazione contro gli infortuni e la vecchiaia,
d’istruzione e di mense e magazzini economici. I contributi di Cimmino, Di Biasio e
Capobianco, come pure la recente biografia di Domenico Santoro, scritta da Marino,
ricostruiscono bene quelle che furono le vicende del proletariato di fabbrica casertano in
questo periodo e delle leghe di coloni e di braccianti, di cui si sottolineano anche i limiti
e le difficoltà. Emergono sia i limiti oggettivi, che intralciarono l’organizzazione di un
forte proletariato di fabbrica in zone dove pure, come si è visto, non mancavano gli
insediamenti industriali, dovuti alla prevalenza numerica, sulla manodopera maschile adulta,
di quella femminile e minorile; sia i limiti soggettivi, individuabili soprattutto nei forti
contrasti tutti interni, quali quelli che esistevano tra le leghe di braccianti e quelle
costituite dagli affittuari e dai piccoli coltivatori, che condussero, nei primi anni del
nuovo secolo inesorabilmente alla fine dell’organizzazione leghista contadina in Terra di
rado, fosse carente la stessa direzione di lotta, a prescindere se a guidarli fossero i
riformisti oppure i sindacalisti, e come alquanto anguste e, perciò, inadeguate a tener conto
della condizione operaia in fabbrica nella sua complessità, fossero le stesse piattaforme
rivendicative. Quanto al Partito socialista casertano, sufficienti sono le conoscenze utili a
delineare, nel periodo a cavallo dei due secoli, la contrastata sua parabola, dalla difficile
crescita iniziale, sotto la spinta organizzativa di giovani intellettuali, tra cui Nardone e
Santoro, dai trascorsi repubblicani e radicali, il che spiega l’iniziale posizione
intransigente, in contrasto con l’indirizzo riformista del partito a livello nazionale; alla
crisi organizzativa interna, che sfociò nello scioglimento della Federazione nel 1903 (al
Congresso Nazionale del Partito, nel 1904, non partecipò nessuna delegazione socialista
casertana e neppure ci fu mobilitazione dei lavoratori in occasione dello sciopero generale
dello stesso anno), e alla scissione della corrente sindacalista, seguita da una buona parte
del proletariato agricolo e di quello operaio, di estrazione artigianale, che avevano come
riferimento le Camere del Lavoro di Aversa, controllata da Gentile, e di Santa Maria Capua
Vetere, controllata da Indaco. Dopo un periodo di anonimato, il Partito riprese vigore, agli
inizi del secondo decennio del Novecento, quando emersero nuovi quadri giovanili, schierati
su posizioni antibloccarde e fautori dell’intransigentismo rivoluzionario (tra i principali
attivisti, troviamo Gualberto Salonia). I sindacalisti fecero , allora ritorno, nel Partito,
che subì, però, una nuova scissione, questa volta a destra, dopo che Alberto Beneduce decise
di dare la sua adesione al Partito Socialista Riformista.
Abbastanza studiato può ritenersi anche il fascismo in Terra di Lavoro, limitatamente,
però, al periodo che giunge fino alla soppressione della provincia (gennaio 1927). Alle
conclusioni di Bernabei, successivamente riprese e fatte proprie da Silvano Franco, secondo
cui il fascismo si affermò completamente nell’intera provincia soltanto nel 1924-1925, senza
aver fatto quasi ricorso alla violenza, si contrappone la tesi di Capobianco, che scorge
proprio nell’utilizzo mirato dei metodi intimidatori e squadristici il principale strumento
di penetrazione e di affermazione del fascismo anche nella nostra provincia. In effetti, è un
fatto incontestabile che le manifestazione di violenza messe in atto dai fascisti casertani
furono molto più numerosi dell’unico caso riportato nel suo libro dal Bernabei, vale a dire
l’incendio del settimanale locale l’Unione, che, detto per inciso, alcuni mesi dopo, fu, in
verità, oggetto anche di un secondo assalto in perfetto stile squadristico. Come pure è certo
che gli episodi di violenza furono molto più numerosi di quelli riportati dal Capobianco, dal
momento che non si dispone, in proposito, di una statistica completa e lo spoglio progressivo
delle fonti archivistiche e di quelle a stampa fa emergere, di tanto in tanto, sempre nuovi
casi di violenza consumati non solo contro le organizzazioni e gli avversari politici
(soprattutto aggressioni dirette contro esponenti locali dei partiti popolare e socialista e
minacce ed intimidazioni in occasioni delle elezioni comunali), ma anche contro quegli stessi
fascisti, che, all’indomani della sconfitta politica di Padovani e della sua morte, avevano
continuato a restare su posizioni di dissenso, come avvenne, per esempio, in occasione della
spedizione punitiva su Casagiove (gennaio 1924), organizzata dai fascisti ufficiali e guidata
dal centurione Cipriani, contro i locali fascisti dissidenti, che avevano appena riportato la
vittoria nelle elezioni comunali. E’, però, altresì un fatto che non fu principalmente con la
violenza che il fascismo no si spianò la strada per andare alla conquista delle
amministrazioni comunali della provincia Un documento conservato presso l’Archivio di Stato
di Caserta, di pochi mesi precedenti la marcia su Roma, dimostra inoppugnabilmente che, a
quell’epoca, la maggior parte dei comuni del Casertano erano saldamente sotto il controllo
della tradizionale classe politica dei notabili liberali. Ben il 70 per cento di essi,
capoluogo compreso, era, infatti, retto da amministratori, che facevano capo a Democrazia
Liberale, in misura più massiccia, o a Democrazia Sociale, mentre i rimanenti erano in mano
ai popolari (sedici), ai socialisti (undici) e ai combattenti. A distanza di più di un anno,
la situazione risultava, ovviamente, variata, ma non nella misura che ci si attenderebbe.
Come risulta dal telegramma prefettizio del 3 agosto 1923, n. 442, soltanto 17 erano i comuni
controllati completamente dai fascisti, 14 avevano una rappresentanza fascista e 19 erano
amministrati da regi commissari o commissari prefettizi fascisti. Addirittura un comune,
quello di Aquino, continuava, nel 1924, ad essere in mano ai rossi e solamente nel febbraio
di quello stesso anno era stato definitivamente commissariato il comune capoluogo di Caserta.
Il fatto è che, ad arginare il diffondersi in Terra di Lavoro del fascismo, giocò un ruolo
fondamentale la capacità di controllo esercitata su quasi tutta la provincia da quella
vecchia classe dirigente, che, solamente nel momento in cui decise di aderire al fascismo,
concesse a questo il via libera. Ovviamente, a rallentare la spinta espansionistica del
fascismo concorsero, a nostro giudizio, anche altri fattori, primo fra tutti quello che
rappresentò un peculiare aspetto della nostra provincia, vale a dire il prolungato contrasto
che si determinò tra i fascisti casertani, che in quei primi anni avevano il controllo del
partito ed erano schierati sulle posizioni intransigenti di capitan Padovani, e il forte
schieramento dei nazionalisti, che avevano in Paolo Greco il loro leader riconosciuto.
Procedendo verso la conclusione del mio intervento, non posso, infine, mancare di
occuparmi di un ultimo settore di indagine, che ha ricevuto pur esso un grande sviluppo
proprio in questi ultimi anni. Ci riferiamo al periodo della II guerra mondiale ed al
successivo immediatodopoguerra, su cui per molto tempo si è preferito generalmente sorvolare,
un poco in conseguenza di un istintivo desiderio di rimozione e un poco, senza dubbio, in
ossequio alla vecchia tradizione, che escludeva la possibilità che avvenimenti ancora troppo
recenti potessero costituire materiale di indagine storica. Soltanto dopo l’uscita del volume
La Campania dal fascismo alla repubblica. Società, politica e cultura, a cura di L. Cortesi,
Napoli 1977, si assistette ad un progressivo aumento dell’interesse per tali vicende, che si
concretizzò in diverse interessanti pubblicazioni fatte di diari, memorie e studi specifici.
Su Terra di Lavoro pagine importanti, alcune uscite postume, sono state scritte da Giuseppe
Capobianco, cui si deve il recupero di tutta una serie di fatti da lui puntigliosamente
esposti per rivendicare anche per la provincia di Caserta un posto ed un ruolo significativo
nella lotta di liberazione e di resistenza condotta dalle locali popolazioni. Parimenti non
vanno trascurate tutte quelle altre pubblicazioni, che, oscillando tra ricordi personali e
ricostruzione storica (p. e., A. Pannone, Sessa Aurunca prima e dopo la II guerra mondiale,
1995) offrono, come pure quei capitoli preziosi, rinvenibili, a volte, in storie di singole
comunità, quale, per esempio, quello contenuto nella pregevole recentissima pubblicazione di
G. Riccio, Un ponte dal passato. Storia e tradizione di Prata Sannita, 2005) non di rado
materiale prezioso per una futura completa ricostruzione delle tragiche vicende storiche di
quegli anni. Va, inoltre, detto, che proprio in questi ultimi anni, importanti contributi
stanno venendo dalla cosiddetta storia orale, che, quando è realizzata con criteri
scientifici, consente di raggiungere importanti risultati. Essa, scardinando il muro di una
tenace reticenza, attraverso la testimonianza della gente del posto, che ha vissuto
direttamente quelle terribili esperienze, fatte di bombardamenti, di stragi, di paura, di
fame, sta, a poco a poco, consentendo il recupero di tutta una serie di fatti, utilissimi
alla comprensione e all’approfondimento di quel terribile periodo, che rischiano altrimenti
di perdersi per sempre con la scomparsa dei testimoni e/o protagonisti. E che buona parte
degli avvenimenti più rilevanti ebbero a verificarsi nella nostra provincia, sta a
testimoniarlo lo spazio riservato a diverse sue comunità nei due volumi (Terra bruciata e il
recente Guerra totale), che, sulla base delle testimonianze raccolte, in collaborazione con i
suoi studenti, ha pubblicato Gabriella Gribaudi, docente dell’Università federiciana di
Napoli, i quali, insieme con la prefazione di Felicio Corvese al catalogo della Mostra Erba
Rossa, da lui curata, possono considerarsi tra le cose migliori finora prodotte su Terra di
Lavoro in questo campo di indagine e per questo periodo della sua storia. Va segnalato,
inoltre, che tale attività di ricerca, sotto la guida degli insegnanti, si è andata
diffondendo anche a livello di scuola secondaria superiore (il docente Ciro Rocco può
considerarsi, in provincia, a pieno titolo, uno dei precursori), con risultati senza dubbio
di un certo interesse. Per quel che riguarda, infine, il periodo compreso tra l’immediato
dopoguerra e gli anni Sessanta, ci limitiamo a ricordare il nostro saggio su Chiesa e
politica nella diocesi di Caserta nel secondo dopoguerra. Il voto amministrativo degli anni
Cinquanta, 2003 e i due cicli di conferenza, organizzati dal Centro Studi per la ricerca e la
didattica della storia Francesco Daniele qualche anno fa, i cui atti non hanno ancora visto
la luce esclusivamente per questioni di carattere finanziario.
Finisce qui questa rapida analisi di quei settori dell’indagine storica riguardante Terra
di lavoro, che presentano una maggiore ricchezza di indagini e di studi. E’ ovvio che ve ne
sono altri, in cui si riscontrano livelli di conoscenza più arretrati e incompleti, di cui,
in questa sede, non si è parlato (in proposito si rinvia a O. Isernia, Breve bilancio della
produzione storiografica dell’ultimo trentennio su Terra di Lavoro nell’Ottocento e
Novecento, in Le radici & il futuro, 1, 2003, pp. 105-130). Sarà compito della futura ricerca
storica locale colmare tale gap e ciò potrà meglio e più proficuamente avvenire, se, come si
spera, gli Enti pubblici dimostreranno una maggiore sensibilità verso il lavoro dello storico
locale, a torto, troppo spesso, scarsamente tenuto in considerazione, se non addirittura snobbato.

è una realizzazione editoriale THE MOMENT